mercoledì 30 luglio 2025

Il ritorno del protezionismo e la de-industrializzazione USA Guglielmo Forges Davanzati (Prof. Storia del Pensiero Economico - UNISALENTO)

 Stephen Miran è il principale teorico del protezionismo dell’aministrazione Trump. Nell’articolo User’s guide to resttucturing the global trading system del 2024, Miran rileva due principali benefici per l’economia USA derivanti dall’introduzione di dazi, ovvero: l’aumento del gettito fiscale e la re-industrializzazione.

Nel dibattito italiano, queste tesi vengono spesso considerate con sufficienza e prevale la convinzione che le misure protezionistiche USA siano destinate a produrre danni per la stessa economia statunitense, trattandosi di una gestione irrazionale della politica commerciale. Si tratta di quella che viene definita la Madam theory o teoria dei pazzi al potere, secondo la quale l’irrazionalità del comportamento del Presidente serve a disorientare gli avverari politici per ottenere il massimo vantaggio nelle trattative.

Conviene, per contro, prendere Miran sul serio e verificare se le sue tesi reggono alla prova della teoria e dei fatti.

Miran parte dall’osservazione per la quale, essendo il dollaro valuta di riserva internazionale, rivalutazione del dollaro, causata dal suo essere valuta di riserva internazionale, è responsabile del declino industriale americano e avrebbe trasferito risorse alla sfera finanziaria beni prodotti in Paesi con costi di produzione più bassi e cambio deprezzato (Cina, in primis). Si stima, a riguardo, che la quota degli occupati sul totale della forza-lavoro nella manifattura americana si è ridotta dal 24% del 1960 all’8% del 2025. Il peso del Pil USA su quello mondiale si è ridotto dal 40% del 1960 al 21% del 2012. Secondo Miran, l’introduzione di dazi può servire ad arrestare questa tendenza e, al tempo stesso, ad attrarre capitali negli USA. I dazi, infatti, proteggono le imprese con sede negli USA dalla concorrenza internazionale. Il ritorno al protezionismo – si aggiunge – non avrebbe effetti inflazionistici (si cita, a riguardo, l’esperienza positiva del biennio 2018-2019) e, con un livello “ottimo” dei dazi (stimato al 20%) si produrrebbe anche l’aumento del gettito fiscale. Va da sé che questo effetto si produce solo se la domanda statunitense di prodotti importati è molto rigida e, per conseguenza, mentre un basso livello dei dazi (dunque, politicamente poco rilevante, se i dazi sono concepiti come strumento di negoziazione politica) può generare un gettito elevato, vale il contrario nel caso di dazi elevati.

Questa tesi è criticabile per due ordini di ragioni:

1)        Non sembra esistere correlazione fra diffusione del dollaro come valuta di riserva internazionale e de-industrializzazione USA. Dal 1944 e nei successivi decenni la domanda di dollari su scala internazionale è continuamente cresciuta, salvo far registrare un significativo decremento nell’ultimo triennio (raggiungendo oggi il minimo storico del 57.54%, a fronte di un aumento della domanda, in particolare, di euro, soprattutto per effetto della dollarizzazione promossa dai BRICS). Il deficit commerciale americano è aumentato del 60%, al netto dell’inflazione, tra il 2000 e il 2022. Si badi che questo aumento si è registrato proprio a partire dalle prime msiure protezionistiche, volute, in particolare, dall’amministrazione Biden. Come è noto, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, con gli accordi di Bretton Woods, il dollaro diventa la valuta di riserva internazionale. Il problema nasce dal fatto che gli USA sperimentato da tempo un problema di “doppio deficit” (pubblico e della bilancia dei pagamenti) che, negli ultimi anni, ha generato un processo di de-dollarizzazione, connesso al tentativo dei BRICS di utilizzare una valuta diversa dal dollaro. Se il protezionismo serve a regolare l’offerta di dollari, allora quella dell’amministrazione Trump – nelle circostanze attuali - ha come finalità essenziale la difesa dell’egemonia monetaria, che, a sua volta, è difesa di quello che il Presidente francesce Valéry Giscard d’Estaing ebbe a definire l’”esorbitante privilegio”. L’esistenza, in Europa, di regolamenti (e, dunque, di barriere non tariffarie), in particolare su salute e ambiente, viene percepita dall’industria statunitense e da Trump come ostacoli alle esportazioni USA, pur essendo valide erga omnes e non configurandosi, a rigore, come strumenti di protezione. Miran ritiene anche che l’aumento dei dazi generi incrementi del gettito fiscale: va da sé che questo effetto si produce solo se la domanda statunitense di prodotti importati è molto rigida e, per conseguenza, mentre un basso livello dei dazi (dunque, politicamente poco rilevante, se i dazi sono concepiti come strumento di negoziazione politica) può generare un gettito elevato, vale il contrario nel caso di dazi elevati. Si ha, quindi, un trade-off fra rilevanza del protezionismo per il conseguimento di finalità di contrattazione con Paesi terzi e sua importanza per contribuire al risanamento delle finanze pubbliche.

2)        La de-industrializzazione appare semmai connessa alla finanziarizzazione, non all’apprezzamento del dollaro e ha, dunque, ha che vedere con il modello di sviluppo che l’economia USA si è data soprattutto negli ultimi decenni e, in particolare, con la deregolamentazione dei mercati finanziari voluta da Clinton e alle delocalizzazioni (causate da molti fattori oltre al tasso di cambio, fra i quali: più bassi salari all’estero, tassazione più favorevole, minori vincoli ambientali). Si calcola che l’incidenza della sfera finanziaria (quantificata dallo stock complessivo delle attività finanziare esistenti sul mercato) sul Pil USA è in continuo aumento dal 1950 a oggi. La finanziarizzazione dell’economia e delle imprese frena la produzione industriale soprattutto perché crea incentivi ad allocare capitale monetario in attività più redditizie con utili conseguibili in tempi più rapidi.

Letto in quest’ottica, la vera novità del protezionismo USA consiste nel fatto che– probabilmente per la prima volta nella Storia del capitalismo – le politiche di protezione delle industrie nascenti (teorizzate e messe in atto nella Germania della prima rivoluzione industriale, in particolare da F. List, alla metà dell’Ottocento e poi dai Paesi in via di sviluppo nel secolo scorso) – sono realizzate nella prima economia al mondo. Trump sta accelerando il processo, ma questo era in fieri da decenni, perché è da tempo che gli USA sperimentano il paradosso di voler, simultaneamente vivere al di sopra delle loro possibilità (creando, dunque, elevati e crescenti debiti privati e pubblici) e salvaguardare l’equilibrio della loro bilancia commerciale.


giovedì 10 aprile 2025

Il protezionismo USA è la risposta sbagliata a un problema esistente ... Intervento del Prof GUGLIELMO FORGES DAVANZATI (UNISALENTO)

La tesi che si intende qui sostenere fa riferimento al fatto che – sebbene le politiche protezionistiche attuate da Trump non abbiano un fondamento di razionalità né di ragionevolezza (ci si riferisce alla quantificazione dei dazi) – il protezionismo in quanto tale va preso sul serio, sia con riferimento alla sua Storia, sia con riferimento al suo essere risposta ai risultati prodotti dalla globalizzazione negli ultimi trent’anni. In altri termini, il protezionismo USA è la risposta sbagliata a un problema esistente e, contrariamente a una lettuta diffusa, esso ha una base scientifica (non in Trump) e, dunque, un fondamento razionale. C’è poi da ricordare che l’amministrazione Biden, sebbene in misura più ridotta, ha imposto forme di protezione occulata, mediante un ingente programma di sussidi alle imprese USA denominato Inflation Reduction Act.

La decisione di Trump di imporre dazi al resto del mondo costituisce, senza dubbio, la fine della globalizzazione degli ultimi trent’anni e può essere letta alla luce delle teorie economiche del protezionismo che si rilevano nella Storia del pensiero economico. L’autore più noto a riguardo è il tedesco F. List, che, opponendosi alla teoria dei costi comparati di Ricardo (per la quale il commercio internazionale avvantaggia tutti i Paesi che ne prendono parte), teorizzò la necessità per la Germania di imporre misure di protezione (temporanee) per far crescere la sua industria. L’argomento di List si fonda sulla distinzione fra Paesi early startes e Paesi late comer e, per conseguenza, sulla necessità di proteggere le produzioni dei secondi, fino ad arrivare, nel lungo periodo, alla parità dei poteri contattuali e al libero scambio. Gli storici (in particolare, Carlo Maria Cipolla) hanno fatto oservare che quasi sempre l’industrializzazione dei Paesi occidentali si è resa possibile grazie al protezionismo.

La svolta di Trump, inoltre, è finalizzata a porre un argine alla globalizzazione, anche a seguito dei fenomeni di de-globalizzazione dell’ultimi biennio. L’evidenza empirica mostra che la globalizzazione, dalla prima metà degli anni Novanta, si è associata a una significativa riduzione del tasso di crescita delle economie avanzate e, ancor più, a un notevole peggioramento della distribuzione del reddito, sia fra Paesi, sia all’interno dei singoli Paesi.

Occorre, quindi, evitare il rischio di criticare Trump per difendere l’assetto pre-esistente. Occorrerebbe semmai ripensare un modello di sviluppo su scala globale basato su espansioni coordinate della domanda aggregata.

Un contributo del Prof GUGLIELMO FORGES DAVANZATI (UNISALENTO)




venerdì 8 novembre 2024

Le elezioni USA e il Mezzogiorno, “GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO”, 5 novembre 2024 di Guglielmo Forges Davanzati (docente di Storia del pensiero economico all’Università del Salento)

La gran parte degli analisti prevede che la vittoria di Trump produrrà esclusivamente effetti negativi sull’economia europea, in virtù dei dazi che il Presidente imporrà sulle importazioni dal nostro continente e dalla Cina. La Storia economica ci dà, però, un insegnamento di segno leggermente diverso rispetto ai vantaggi del libero scambio, rilevando che l’industrializzazione – con la sola eccezione del Regno Unito nella prima rivoluzione industriale nella seconda metà del Settecento – è sempre avvenuta facendo crescere industrie nascenti nazionali con misure di protezione doganale. Friedrich List, economista tedesco la cui opera principale è Il sistema nazionale dell'economia politica del 1841, è stato fra i primi a mostrare come la “protezione delle industrie nascenti” fosse la sola strategia che la Germania avrebbe potuto adottare per non soccombere alla concorrenza inglese, essendo l’Inghilterra partita prima nel processo di industrializzazione.

 

Questa considerazione di carattere generale può essere declinata nel contesto attuale e con riferimento ai nessi fra politica commerciale USA e prospettive di crescita del Mezzogiorno, sulla base di una duplice considerazione.

 

1) Innanzitutto, non corrisponde pienamente al vero che solo i Repubblicani USA sono favorevoli al protezionismo. L’IRA (Inflation reduction act) di Biden – un forte stimolo fiscale destinato alle imprese statunintensi per la transizione “green” – è stato, di fatto, un provvedimento ascribile al caso del protezionismo occulto. Mentre è ormai ben nota l’esplicita adesione di Trump alla politica di protezione dell’industria USA (“la parola più bella del dirzionario” – ha dichiarato – “è tariffe doganali”), è forse meno nota un’analoga presa di posizione di Kamala Harris, secondo la quale “bisogna in qualche modo difendersi da un’ondata di concorrenza sleale”. 

 

2) Gli USA, nella seconda globalizzazione (dagli anni Novanta allo scoppio della guerra in Ucraina) hanno svolto il ruolo di importatori netti di prodotti europei e successivamente cinesi, finanziando i deficit della bilancia commerciale con continui aumenti del debito pubblico. In virtù del privilegio esorbitante (come lo definì il Presidente francese Giscard d'Estaing) di detenere la moneta di riserva internazionale, gli USA sono l’unico Paese al mondo a godere del conseguente privilegio di non avere limiti all’espansione e alla sostenibilità del loro indebitamento sovrano. Non a caso, questo è passato dal 50% al 121% rispetto al Pil (in linea con la tendenza all’aumento del debito pubblico mondiale) negli ultimi trent’anni. Dagli anni Settanta, gli USA sperimentano costantemente il doppio deficit (della bilancia commerciale – con valori che oscillano fra il -2% e il -6% - e del bilancio pubblico, come attestato dall’US Census Bureau). In sostanza, gli USA sono riusciti, grazie al dollaro, a vivere sistematicamente al di sopra delle loro possibilità e la loro propensione all’eccesso di consumo, per certi aspetti, ha prodotto più danni che benefici all’Unione Europea e, dunque, al Mezzogiorno.

 

Nella storia recente, la propensione delle famiglie statunitensi all’overconsumption (consumi resi possibili dall’indebitamento privato) è stata la principale causa della crisi finanziaria globale del 2008. Il Sud ne ha risentito in modo estremamente significativo, con una caduta del Pil e un aumento della disoccupazione – negli anni che vanno dal 2009 al 2014 - maggiore e più duratura di quella registrata nel Centro-Nord.

 

Quella esperienza mostra che esiste un rilevante effetto di propagazione delle scelte di politica economica statunitensi sull’economia del Mezzogiorno. Si tratta di un effetto di propagazione che passa per la reiterazione, in Europa, di politiche di contrazione della spesa pubblica (che l’Unione ha evitato solo con il Next Generation Europe per far fronte alla pandemia), che i Paesi centrali del continente – Germania e Paesi “satelliti” - trovano tanto più convenienti quanto maggiore è la propensione alle importazioni da parte degli USA.

 

Poiché, infatti, le imprese localizzate nel Mezzogiorno hanno bassa propensione alle esportazioni, la compressione della domanda interna e la connessa moderazione salariale non ha, per loro gli effetti rilevanti che ha per le imprese del Nord (e del Centro-Europa) e produce il solo effetto di generare aumento della disoccupazione e rallentamento del tasso di crescita. Inoltre, in considerazione della specializzazione produttiva del Sud fortemente orientata verso settori a basso valore aggiunto e a basso contenuto di ricerca e sviluppo, le imprese meridionali subiscono la concorrenza di Paesi con bassi salari e analoga specializzazione. Anche in questo caso, si tratta di un effetto – di segno negativo – tanto maggiore quanto minore è la protezione doganale. Si pensi, a titolo esemplificativo, al riorientamento dei flussi turistici, negli ultimi anni, dalle tradizionali mete pugliesi verso l’Albania, la Grecia, la Croazia.

 

La diffusa e spessa acritica apologia del liberoscambio, peraltro, non considera un’ampia evidenza empirica – per la quale si rinvia agli studi di Dani Rodrik, uno dei più accreditati economisti statunitensi  – che dimostra che i Paesi industrializzati hanno registrato i loro massimi tassi di crescita nella loro storia nelle fasi nelle quali erano in vigore controlli sui movimenti di capitale 

(https://www.project-syndicate.org/onpoint/an-interview-with-dani-rodrik-trade-protectionism-development-redistribution-globalization-2023-10).





giovedì 12 settembre 2024

La de-dollarizzazione e la guerra in Ucraina: una nota Guglielmo Forges Davanzati

Con la massima schematizzazione, e senza pretese di esaustività, è possibile individuare due linee interpretative sulle cause della guerra in Ucraina. In quanto segue, queste interpretazioni vengono descritte e commentate senza alcuna pretesa di originalità, ponendosi, in questa sede, il solo obiettivo di orientare il lettore del blog nell’ampio dibattito sul tema e di segnalare alcune recenti pubblicazioni per eventuali approfondimenti[1]

La prima tesi, di gran lunga dominante in Occidente e, dunque, in Italia, fa riferimento alla convinzione, come è noto, che la guerra in Ucraina sia l’esito dell’aggressione militare della Russia e che debba essere contrastata per due ragioni: perché lesiva del diritto internazionale e perché potenzialmente distruttiva di quelli che vengono definiti i “valori occidentali”. Questi ultimi sono identificati, di norma, nella democrazia, nella libertà individuale, nella difesa della proprietà privata: in altri termini, l’ordine liberale.

In Italia, questa posizione è ben riassunta da Vittorio Emanuele Parsi (si veda, in particolare, “Il posto della guerra e il costo della libertà”, Bompiani, 2022). Come sempre accade quando si invocano valori etici per legittimare conflitti armati, si ritiene – in questo approccio – che la rilevanza morale dell’obiettivo da conseguire giustifichi costi anche elevati per la gran parte della popolazione.

In effetti, a ben vedere, questi costi non sono uniformemente distribuiti fra gruppi sociali. I percettori di redditi fissi e bassi pagano la guerra in misura maggiore per le seguenti ragioni:

a)     La riduzione dell’offerta di gas, derivante dalle contro-misure russe alle sanzioni occidentali e principale responsabile dell’aumento del tasso di inflazione nel biennio 2022-2024, ha penalizzato soprattutto le famiglie povere, a causa della maggiore incidenza delle spese per l’accesso a servizi pubblici essenziali (ci si riferisce all’aumento dei costi energetici) e per l’acquisto di beni alimentari in rapporto al loro reddito monetario.

b)     L’aumento dei tassi di interesse delle Banche centrali (finalizzato a contrastare l’inflazione) ha anch’esso penalizzato soprattutto gli individui con redditi più bassi – o residenti nelle aree più povere del Paese, nel caso italiano - per l’aumento del costo dei mutui.  

c)     I percettori di redditi bassi e fissi pagano maggiormente l’aumento delle spese militari (da portare al 2% del Pil), dal momento che, in combinazione con la revisione del Patto di Stabilità e Crescita nell’UME e dunque con l’avvio di una nuova fase di austerità, esso implica minore spesa pubblica soprattutto per i servizi di Welfare (istruzione, sanità, trasporti, pensioni)[2].  

Una seconda posizione, minoritaria, collega i conflitti armati – quello in Ucraina, in particolare – all’obiettivo statunitense di preservare la propria egemonia attraverso l’uso del dollaro come moneta di riserva internazionale. La letteratura accademica sul tema è relativamente scarsa. Si segnalano, in particolare, due libri di taglio storico-teorico: Rosario Patalano (La moneta del mondo, Rubettino, 2013), sui progetti di riforma del sistema monetario; Saleha Moshin (Paper soldiers. How the weaponization of the dollar changed the world order, Penguin, 2024) sui processi in atto di de-dollarizzazione, da parte, in particolare, dei c.d. BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa)[3].

Sul piano tecnico, viene argomentato che disporre della valuta di riserva e mezzo di scambio internazionale significa, per usare l’espressione di Giscard d’Estaing, godere di un “esorbitante privilegio”. Per comprendere la natura di questo privilegio, occorre partire da alcuni assunti acquisiti dalla teoria economica moderna (si veda A. Graziani, The monetary theory of production, Cambridge University Press, 2003), ovvero: (i) la moneta è una pura convenzione sociale; (ii) la produzione di moneta-credito da parte del sistema bancario nel suo complesso non incontra vincoli di scarsità e (iii) è la domanda di moneta espressa da imprese ed eventualmente dai lavoratori a determinare la quantità di circolante. La prima premessa è fondamentale per motivare la principale conseguenza del privilegio della detenzione della moneta di riserva mondiale, ovvero l’impossibilità del fallimento dello Stato che la emette. Più in dettaglio, il fallimento (inteso nella specifica accezione di non disporre di risorse sufficienti per garantire il finanziamento del settore pubblico mediante l’emissione di titoli del debito pubblico), nel caso degli USA, può essere esclusivamente auto-indotto e, anche per questa ragione, se non impossibile, costituisce un evento inverosimile. Infatti, l’emissione di nuovo debito viene decisa, in totale autonomia e discrezionalità, dal Congresso, e accade talvolta che ciò che i media rappresentano come rischio di fallimento dello Stato americano non è altro che il riflesso del conflitto che si verifica periodicamente, soprattutto nelle fasi recessive, fra democratici e repubblicani in merito all’espansione della spesa pubblica. Nei fatti, dal 1960 ad oggi il Congresso ha aumentato il limite ben 80 volte e il default non è mai avvenuto.

Le premesse (ii) e (iii) spiegano per quale ragione gli USA – a differenza di tutti gli altri Paesi al mondo - non possono fallire: i titoli di Stato americani, infatti, sono per i mercati finanziari attivi sicuri (safe asset, nel gergo ovviamente anglosassone della finanza internazionale). Questi titoli sono domandati per la gran parte delle transazioni su scala internazionale (petrolio in primis) e fanno da àncora per il valore dei titoli sovrani degli altri Stati e dei titoli azionari e obbligazionari scambiati nella quasi totalità delle borse mondiali.

A ciò occorre aggiungere il dato per il quale il c.d. American way of life è largamente caratterizzato da elevata propensione al consumo e, in alcune fasi, da sovra-consumo (reso possibile dall’indebitamento privato) e che livelli elevati e persistenti di sovra-consumo – si direbbe, il vivere al di sopra delle proprie possibilità - possono essere finanziati solo a condizione di disporre della moneta del mondo. Nella Storia recente degli USA, a partire dall’amministrazione Reagan, ciò si è tradotto nel twin deficit (deficit pubblico e del saldo della bilancia commerciale), connesso con l’indebitamento con l’estero e con sé stessi.

La fig.1 mostra che il saldo della bilancia commerciale statunitense (la differenza fra esportazioni e importazioni) è sistematicamente in disavanzo dall’inizio degli anni Settanta, facendo rilevare come i (sovra)consumi degli americani sono, in ultima analisi, garantiti da un eccesso di importazioni che nessun Paese, privo del privilegio della moneta mondiale, potrebbe sostenere con questa intensità e con questa lunghezza temporale.





Fig.1: saldo commerciale USA : 1895-2015

 

Secondo questa lettura, dunque, la guerra risponde (anche o prevalentemente) all’obiettivo di preservare il privilegio della moneta mondiale, in una fase nella quale il suo dominio è messo in discussione dal tentativo dei BRICS di far aumentare il numero di transazioni internazionali effettuate in valute diverse dal dollaro. Risulta interessante osservare che la stessa potenza bellica USA dipende dai finanziamenti al settore militare, che sono tanto maggiori (o possono esserlo) quanto più il dollaro continua a svolgere il ruolo di moneta di riserva e di mezzo di scambio.

Letta in tal senso, la prima tesi – di ordine etico – appare come copertura ideologica dei rapporti di forza esistenti su scala globale e, dunque, della competizione fra valute. Il processo di de-dollarizzazione è in atto, ma è ben difficile prevederne gli sviluppi. Nel 2011, il dollaro costituiva il 73% del totale delle riserve detenute dalle Banca centrali; oggi questa quota si è ridotta al 60%. Parallelamente, dagli anni Cinquanta a oggi, il contributo degli USA al Pil globale si è dimezzato, attestandosi al 20% circa. La ricostruzione delle cause e dei possibili sviluppi di questi processi è fornita, secondo prospettive teoriche e politiche diverse, da Giulio Chinappi, L’esorbitante privilegio del dollaro e il suo lento declino, Marx 21, 4 maggio 2023 e da Paolo Guerrieri, L’esorbitante privilegio del dollaro è al capolinea?, Ytaly 24 febbraio 2024.

 


[1] Per una ricostruzione del dibattito, dal punto di osservazione della geopolitica, si rinvia al fascicolo monografico di Limes (Il mondo cambia l’Ucraina) del luglio 2024, con particolare riferimento alla prima parte sui costi della ricostruzione di quel Paese. L’ultimo fascicolo della Review of Keynesian Economics (Volume 12 (2024): Issue 3 (Aug 2024) è da segnalare per i pregevoli contributi sul tema economia e guerra.

[2] È stato osservato che il combinato dell’aumento delle spese militari e dell’allargamento a Est dell’UME potrebbe comportare una significativa riduzione dei fondi di coesione (il tema è rilevante soprattutto per il Mezzogiorno).. Sulla questione, si rinvia a  cf. T. Schwab,, Quo vadis. Cohesion policy? European regional development at a crossroards, Policy Paper, June 2024. Si segnala anche la ricerca di Ugo Marani in merito al sostanziale fallimento del progetto che voleva l’euro come valuta di riserva e di scambio internazionale (L’euro una valuta solo “regionale”www.economiaepolitica.it, luglio 2023). 

[3] Lo studio pionieristico sul rapporto fra produzione della moneta di riserva internazionale e potere militarie e politico è quello di Marcello De Cecco (Moneta e impero. Economia e finanza internazionale dal 1890 al 1914, Donzelli, 2016, a cura di A. Gigliobianco).

Il ritorno del protezionismo e la de-industrializzazione USA Guglielmo Forges Davanzati (Prof. Storia del Pensiero Economico - UNISALENTO)

  Stephen Miran è il principale teorico del protezionismo dell’aministrazione Trump. Nell’articolo User’s guide to resttucturing the global ...